Riflessioni sul principio di non contestazione nel processo civile

(Intervento al convegno organizzato dalla Fondazione forense modenese il 4.12.2009 dal titolo “Le recenti modifiche al processo civile”)
 
1.- La legge di riforma 18 giugno 2009, n. 69 ha aggiunto al primo comma dell’art. 115 c.p.c., che recitava e continua e recitare “Salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero“, l’inciso: “nonché i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita“.
    
E’ noto che l’innovazione legislativa ha recepito l’orientamento giurisprudenziale dominante. La Cassazione aveva infatti attribuito rilievo alla non contestazione sia nel processo del lavoro, sia nel processo ordinario, sia nel processo tributario. […]

I primi commenti alla innovazione legislativa concordano sull’osservazione che essa sia ispirata ad esigenze di brevità del processo civile. In particolare si evidenzia come essa si inquadri in quella impostazione che vede nel processo civile un mezzo per risolvere celermente le liti in modo pragmatico, negando allo stesso processo la funzione di accertamento della verità storica. Ciò, in quanto, attraverso il meccanismo “allegazione-non contestazione”, le parti potrebbero congiuntamente sottoporre al giudice un fatto non vero. Si suole altresì specificare, sulla scia della giurisprudenza ante riforma, che, così come le parti sono libere di sottoporre o non sottoporre al giudice una determinata controversia, analogamente dovrebbero avere il potere di circoscrivere la materia litigiosa. Saremmo, quindi, nell’ambito del “principio dispositivo – di disponibilità delle prove”.   

In effetti, nella formulazione e nell’interpretazione delle norme in materia di giudizio civile contenzioso su diritti disponibili è possibile riscontrare due diversi indirizzi: il primo che vede nel processo uno strumento per l’accertamento della realtà storica, il secondo che ne individua il fine fondamentale nella soluzione veloce della lite e che considera il giudizio su diritti disponibili come una “cosa privata delle parti”.

Qualora dovesse venire accolta l’opinione secondo cui il principio di non contestazione rappresenta una esplicazione del potere delle parti di circoscrivere la lite, è evidente che l’inciso finale di cui al primo comma dell’art. 115 dovrebbe essere interpretato in modo estensivo. Ad esempio, la non contestazione potrebbe servire per delimitare la materia controversa anche qualora si tratti di fatti dei quali la parte non contestante non sia e non possa essere stata a conoscenza; in altre parole, in tale caso, non sarebbe sufficiente dichiarare di non conoscere il fatto ma occorrerebbe comunque contestarlo (e, secondo la giurisprudenza, “motivare” tale contestazione: v. infra). Inoltre, il principio dovrebbe operare a prescindere dal fatto che si tratti di fatti rilevanti o irrilevanti oppure, come deciso da alcune sentenze, di fatti principali o secondari. Insomma, seguendo questa impostazione qualsiasi fatto allegato e non contestato non potrebbe essere messo in dubbio, nel processo civile contenzioso su diritti disponibili.

Vorrei, però, provare a proporre una diversa lettura dell’innovazione legislativa. Tale diversa lettura si fonda su due presupposti: il primo è un’interpretazione delle regole sul processo civile che non costituisca il frutto della scelta tra due funzioni alternative “accertamento verità / celere soluzione lite”, ma il coordinamento di entrambi gli scopi; il secondo è l’evidenziazione che, in un processo caratterizzato da una difesa tecnica di elevata competenza (come è o come dovrebbe essere il nostro), la non contestazione può costituire, essa stessa, un elemento presuntivo della veridicità del fatto allegato e non contestato.

Primo. Il giudizio civile su diritti disponibili interviene solo se i cittadini litigano e portano la controversia davanti al giudice. Possiamo quindi dire che senza l’iniziativa di parte consistente nel portare la lite davanti al giudice, il processo non si svolge.

Però, poi: come fa il processo a risolvere la lite? Inevitabilmente, mediante la ricerca della verità storica (in proposito, posso consigliare il bel libro di TARUFFO, La semplice verità, ed. Laterza, 2009). Non potrebbe essere altrimenti perché l’ordinamento giuridico consiste in un insieme di regole applicate a determinati fatti e se non si andasse alla ricerca del fatto storico il diritto positivo perderebbe la sua funzione preventiva. In altre parole, sarebbe inutile stabilire per legge che, qualora i privati tengano determinati comportamenti in presenza di specifici accadimenti, incorrono in conseguenze negative (o positive), se poi non si andasse a verificare l’effettiva ricorrenza o meno di tali fatti.     

Nella ricerca della realtà storica (che rappresenta una méta ideale, il cui raggiungimento, da parte del giudice, dello storico o di chiunque altro, non è verificabile), il giudice non ha la stessa libertà in termini di strumenti e di tempo come può avere, ad esempio, uno storico, perché il processo deve (o dovrebbe) finire in tempi contenuti. Da qui la necessità di contingentare e regolamentare i mezzi di prova e l’assunzione di tali mezzi.

In conclusione, il processo civile su diritti disponibili a) ha come generico presupposto la volontà di una parte di portare il litigio davanti al giudice; b) risolve la lite tendenzialmente mediante la ricerca della realtà dei fatti; c) ma lo fa con mezzi limitati e tempo contingentato.

Qualcuno sostiene che l’esistenza del principio dispositivo e la possibilità che le parti mediante il meccanismo “allegazione-ammissione/non contestazione” possano imporre al giudice di applicare la regola giuridica a fatti che le parti sappiano non veri debba condurre a negare la funzione epistemica del processo. In senso contrario si può riportare il pensiero espresso da Carnelutti già nel 1915 (ne La prova civile, Giuffré, ristampa 1992, pp. 20-21), secondo il quale la circostanza per cui il nostro sistema processuale è sottoposto al principio dispositivo “non risponde però affatto esclusivamente alla natura privata dell’interesse tutelato nel processo civile e a una conseguente indifferenza dello Stato sul punto della realtà dei presupposti di fatto della sentenza, ma è invece prevalentemente determinato da un intento pratico di sfruttamento della iniziativa delle parti per una più rapida e più sicura posizione del fatto conforme alla realtà medesima: il contrasto degli interessi, che determina e vivifica il processo, consente di ritenere che il fatto taciuto da tutte le parti non possa essere e che il fatto affermato da tutte le parti non possa non essere reale, mentre la possibilità che questa previsione sia fallace in qualche raro caso non sminuisce sensibilmente il rilevato vantaggio di sicurezza e di economia”. Pure gli studiosi americani di analisi economica del diritto hanno rilevato come il principio dispositivo sia il modo per far arrivare al giudice la maggior quantità di informazioni. In definitiva, si può concludere come anche il principio dispositivo sia finalizzato alla ricerca della verità in tempi brevi.

Secondo.
Ciò chiarito, è possibile armonizzare il rilievo della non contestazione espresso nel nuovo art. 115 con la ricerca della verità con mezzi e tempi contingentati? La risposta mi pare affermativa.

Non è forse vero che, in una controversia semplice, se l’avvocato contesta solo alcune circostanze di fatto, fra quelle astrattamente rilevanti, mentre non ne contesta altre, sta a significare che, secondo l’id quod plerumque accidit, quelle non contestate si sono effettivamente verificate (almeno per quanto risulta all’avvocato dal racconto del suo cliente)?

Del resto per quale diverso motivo la circostanza potrebbe non essere stata contestata? Perché
l’avvocato si è sbagliato? Perché ha erroneamente ritenuto la circostanza irrilevante? In proposito, qualcuno si potrebbe domandare se sia giusto che la parte debba subire le conseguenze degli errori del proprio avvocato. Io lo ritengo corretto: se si sostiene che l’avvocato svolga una funzione di pubblica utilità e di elevata responsabilità (tanto da richiedere un albo, la sorveglianza dell’albo stesso, il controllo delle tariffe, ecc.), è doveroso riconoscere conseguenze ai suoi errori: l’importanza di un ruolo implica la gravità delle conseguenze degli errori. Qui si potrebbe obiettare che, in pratica, si finisce con il riconoscere al difensore, mediante la non contestazione, il potere di disporre del diritto in contesa, in deroga al cpv. dell’art. 84 c.p.c., ma si dovrebbe eccepire che è stato il legislatore ad attribuire rilievo alla non contestazione e che, d’altronde, la possibilità riconosciuta la difensore di modificare le domande attribuisce già al medesimo un grande potere.

E’ vero che il fatto non contestato potrebbe anche non essersi verificato nella realtà. Ma ciò può succedere anche per la prova testimoniale, per la prova scritta, e per la confessione.

In definitiva, io ritengo che il principio di non contestazione si possa correttamente inquadrare in un processo diretto ad accertare la realtà, in modo veloce ed efficiente. Si ottiene ciò qualificando la non contestazione come un comportamento processuale dal quale si può presuntivamente dedurre la veridicità del fatto non contestato.

Il rilievo per cui il principio di non contestazione costituisce comunque una sorta di mezzo di prova, perché da esso si può dedurre – in un contesto caratterizzato dalla difesa tecnica – la veridicità del fatto può costituire il punto di partenza per interpretare l’innovazione legislativa in modo, a mio avviso, più ragionevole e prudente.

Provo ad ipotizzare alcuni corollari.
a) Si può sollevare il dubbio che il principio di non contestazione possa valere nel procedimento davanti al giudice di pace, qualora la parte si difenda personalmente. Ciò perché la parte, a differenza dell’avvocato, potrebbe non essere in grado di comprendere la rilevanza giuridica dei fatti.
b) Il principio dovrebbe valere solo per i fatti che la parte conosceva o doveva conoscere (in Germania, infatti, lo ZPO, il quale accoglie il principio di non contestazione, stabilisce espressamente che la dichiarazione di non conoscere i fatti può valere ad evitare gli effetti della non contestazione solo per i fatti estranei alla parte). In sintesi, per i fatti estranei dovrebbe essere sufficiente dichiarare di non esserne a conoscenza e sfidare la controparte alla prova.
c) Il principio vale solo se l’attore pone il convenuto (e viceversa) in grado di comprendere quali siano i fatti rilevanti per la decisione della controversia. In una controversia complessa, in cui l’attore esponga, in modo disordinato, numerosi  fatti, l’operatività del principio di non contestazione – il quale, come detto, presuppone che l’avvocato della controparte sia in grado di comprendere il rilievo dei fatti stessi – può operare solo se siano stati individuati i fatti rilevanti e le fattispecie astratte invocate. Solo così, infatti, si potrebbe attribuire alla non contestazione rilievo probatorio (non v’è stata contestazione perché i fatti sono veri e rilevanti).  Ove così non fosse, del resto, l’art. 115 obbligherebbe il convenuto (nell’esempio in discorso, ma potrebbe anche essere l’attore chiamato a difendersi in riconvenzione) a dedicare gran parte della sua comparsa ad elencare tutti i fatti esposti dall’altra parte, almeno premettendo l’inciso “non è vero che”. Tutti si possono rendere conto che ciò non sarebbe di nessuna utilità per velocizzare i processi e si finirebbe con il vanificare la ratio dell’innovazione legislativa.
d) Le legge richiede la contestazione specifica, cosa significa? Si vuole certamente negare rilievo alle contestazioni contenute in clausole di stile. Inoltre, sempre partendo dal presupposto che la non contestazione rappresenta un mezzo di prova e che da essa debba desumersi una implicita ammissione, credo si possa sostenere l’efficacia di una contestazione del seguente tenore: “si contestano le circostanze di fatto contenute nei punti: 3-4-7-8 dell’esposizione avversaria”; oppure “si contestano le circostanze di fatto contenute nella pag. da 3 a 6 dell’atto avversario eccezion fatta per la circostanza secondo cui …”. Secondo la Cassazione e parte della dottrina anteriori alla riforma non sarebbe ammessa la mera negazione del fatto. Ma in proposito devo rilevare che la non genericità (che è il contrario di specificità) significa il divieto di non contestazioni di “genere” non impone che la contestazione debba essere motivata. Per sostenere ciò bisognerebbe preliminarmente affermare che nel nostro processo vi sia un dovere generale di reciproca collaborazione delle parti anche contro il proprio personale interesse, ma è estremamente discusso che nel nostro processo vi sia un obbligo del genere.  
e) Contrariamente a quanto sostenuto da alcuni, è ammessa, a mio avviso, anche la contestazione specifica implicita, consistente ad esempio nell’affermazione di un fatto contrario incompatibile con quello allegato. L’art. 115 richiede la contestazione specifica non la contestazione espressa. A ben vedere, possiamo avere sia una contestazione generica espressa: “la domanda di controparte è infondata in fatto”, sia una contestazione generica implicita: “solo le circostanze di fatto da noi indicate sono vere”; simmetricamente, vi può essere sia una contestazione specifica espressa: “non è vero che quel giorno la parte era a Milano”, sia una contestazione specifica implicita: “quel giorno la parte era in Australia” (che mi pare pertanto ammissibile).
f) Come già rilevato in alcune sentenze della Cassazione degli anni ’60 e ’70 dello scorso secolo (citate da CARRATTA, Il principio della non contestazione nel processo civile, Giuffré, 1995, p. 205), la non contestazione non può operare per dimostrare l’esistenza di contratti per i quali sia richiesta la forma ad substantiam.
g) Infine, coerentemente con quanto sin qui esposto, l’espresso riferimento dell’art. 115 alla parte “costituita” conduce ad escludere l’operatività della non contestazione nei confronti del contumace.

Prof. Fiorenzo Festi
(Associato di diritto privato – Università di Urbino)


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