Anche a seguito di alcune osservazioni dell’Antitrust[1], nei primi anni 2000 il legislatore ha fatto un passo verso un assetto più moderno delle professioni, maggiormente compatibile con le attuali esigenze di mercato.
Anzitutto, la c.d. “legge Bersani” – L. n. 266 del 7 aprile 1997, art. 24 – abolendo il divieto di costituzione di società tra professionisti previsto da una risalente legge del 1939[2] ha demandato al Ministro della Giustizia, di concerto col Ministro dell’Industria e, per quanto di competenza, con il Ministro di Sanità, di fissare i requisiti per l’esercizio delle attività professionali in forma associata[3]. I requisiti sono contenuti ed indicati in un regolamento di attuazione che elaborato dai succitati Ministeri (quella del Ministero della sanità è del 2 febbraio 1998), esaminata dal Consiglio di Stato, il quale, con parere obbligatorio ma non vincolante, nell’adunanza del 9 marzo 1998 aveva tuttavia bocciato lo schema di regolamento sulle società tra professionisti, rinviandolo ai Ministeri dell’Industria, della Giustizia ed al Governo.
Prima di soffermarci sulle rilevanti obiezioni mosse dal Consiglio di Stato, conviene delineare lo schema tracciato dalla suddetta bozza di regolamento, in cui si prevede anzitutto che per le società professionali (cioè quelle costituite per l’esercizio di attività per le quali è richiesta l’iscrizione in albi tenuti da Ordini o Collegi) possono essere utilizzate tutte le tipologie previste dal codice civile: società di persone, di capitali, cooperative[4]. I Ministri dell’Industria e della Giustizia hanno raggiunto un’intesa, che consente l’istituzione di società interprofessionali destinate a raccogliere professionisti iscritti a differenti albi; tuttavia, il Ministro della Sanità, “su pressione della Federazione dei medici”[5] ha deciso che la possibilità di istituire società pluriprofessionali non può riguardare l’ambito sanitario.
Nella detta bozza di regolamento, inoltre, è previsto che: a) oltre ai professionisti, anche la società dovrà chiedere l’iscrizione all’Ordine, cui spetterà il controllo iniziale sui requisiti, quello successivo sul loro mantenimento e quello di carattere deontologico[6]; b) la società interprofessionale verrà iscritta all’Ordine corrispondente all’attività svolta in modo prevalente; c) gli albi dovranno prevedere due sezioni: una per le persone fisiche, l’altra per le società; d) il venir meno dei requisiti, senza regolarizzazione nei sei mesi successivi, comporta la cancellazione dall’albo. Il regolamento prevede, infine, che il cliente abbia diritto di chiedere che l’incarico affidato alla società sia eseguito da uno specifico professionista da lui scelto tra i dipendenti della società stessa.
Questo è quanto previsto dalla bozza di regolamento di attuazione della legge Bersani.
Quanto al parere espresso dal Consiglio di Stato, in esso si contesta che l’attività professionale possa essere esercitata attraverso società di capitali, lasciando quindi aperta la sola possibilità di costituire società di persone. Ma il punto centrale della contestazione è la salvaguardia dell’intuitus personae, che è ritenuto alla base dell’attività professionale: la possibilità di esercitare le professioni intellettuali in qualsiasi forma societaria (soprattutto di capitali) secondo il Consiglio di Stato non garantisce la personalizzazione della prestazione. Il carattere fiduciario del rapporto professionista-cliente, emerge con chiarezza dalla disposizione dell’art. 2232 c.c. in cui si prevede che “il prestatore d’opera deve eseguire personalmente l’incarico assunto”. Ed è proprio da tale disposizione che traeva origine il divieto (tutto italiano, del resto) di costituire società professionali, alle quali si è sopperito con la formula degli “sudi associati”, il cui carattere, per l’appunto, di associazione (non di società) permetterebbe di mantenere un contatto più diretto e personale con il cliente.
Sempre ai fini di valorizzare (quasi estremizzandolo) il carattere personale della prestazione professionale (ai fini di tutela del cliente) deve aggiungersi che è fatto obbligo dalla legge di indicare esplicitamente i singoli nomi dei professionisti che offrono i propri servigi attraverso la struttura dello studio associato (art. 1 legge 1815 cit.)[7].
Interessante, al riguardo, è quanto deciso da Cass., SS.UU., n. 2077 del 3 marzo 1994[8], cioè prima che il legislatore intervenisse con la citata legge numero 266. La Corte, chiamata a decidere su una problematica concernente uno studio associato, nel ribadire l’attuale (ovviamente, tale relativamente al tempo della decisione della S. C.) valenza delle disposizioni contenute nella legge del 1939, così concludeva la lunga motivazione della sentenza: “Restano due questioni: quella della illegittimità costituzionale della legge n. 1815 del 1939 nei riflessi sopraindicati alla normativa comunitaria e alla disciplina delle formazioni professionali in vigore negli altri Stati membri della CEE”. Quanto alla prima questione, secondo la S. C., la pretesa situazione di conflitto della normativa in oggetto con il principio di libertà di associazione, di esplicazione della personalità e di uguaglianza, è sicuramente insussistente, attesi i limiti che l’art. 41 della Costituzione prevede nel secondo e terzo comma, riservando alla legge ogni opportuno controllo delle iniziative ed attività economiche: con la conseguenza che “la disposizione (art. 1, legge 1815 del 1939) in ordine alla quale viene espresso il dubbio di costituzionalità, sotto i vari aspetti, appartiene alla discrezionalità del legislatore ordinario, attinente com’è a regolare, secondo criteri di eguaglianza e nel rispetto delle libertà fondamentali, lo svolgimento e l’esercizio delle professioni intellettuali. La questione sollevata appare pertanto, in tutti i riflessi dedotti, manifestamente infondata”. Quanto alla seconda questione, la Corte rileva, da un lato, che l’adeguamento della disciplina interna alla direttiva CEE del 22 marzo 1977 (che consente ai professionisti dei Paesi membri, nonché alle associazioni o società professionali di operare in Italia), attuata con legge n. 31 del 1982, opera nel pieno rispetto della disciplina normativa in materia vigente nei singoli Stati, senza che ciò rappresenti l’ipotizzabilità di una violazione dell’art. 3 della Costituzione in relazione alla diversità di disciplina propria delle associazioni professionali italiane; e, dall’altro, che “il regolamento CEE n. 2137 del 1985 – relativo all’istituzione di un gruppo europeo di interesse economico (G.E.I.E.), con lo scopo di facilitare o sviluppare l’attività economica dei suoi membri – fa espressamente salva «l’applicazione, a livello nazionale, delle norme legali e/o deontologiche relative alle condizioni di esercizio di un’attività o di una professione» e dispone, altresì, che l’attività del Gruppo è soggetta alle disposizioni della legislazione degli Stati membri relative all’esercizio di un’attività e al suo controllo”.
E siamo ai giorni nostri.
Con particolar riferimento agli avvocati, dopo che il Consiglio Nazionale Forense si era espresso nel senso che “la società professionale costituirà un tipo a sé, assimilabile in qualche misura alla società semplice o in nome collettivo”[9], e dopo che la legge comunitaria n. 526/1999 aveva ricondotto la tipologia specifica della società fra professionisti ai principi della personalità della prestazione, del diritto del cliente di scegliere il legale, della responsabilità dell’avvocato e del rispetto della deontologia, è stata (finalmente?) emanata una apposita disciplina[10], secondo cui:
a) La società tra avvocati costituisce un tipo sui generis (s.t.p.), vagamente ispirato alla s.n.c., alle cui norme si fa espresso rinvio.
b) La s.t.p. va iscritta in una sezione speciale del registr
o delle imprese nonché in una sezione speciale dell’albo degli avvocati tenuto dall’Ordine nella cui circoscrizione è posta la sede legale[11].
c) Non possono far parte della società soci di solo capitale, cioè non avvocati.
d) Il cliente ha facoltà di conferire l’incarico genericamente alla società senza indicare il nominativo del professionista, ma in ogni caso la società è solidalmente responsabile con il professionista eventualmente incaricato, il quale risponde con tutto il suo patrimonio anche per le obbligazioni sociali non derivanti dall’attività professionale[12].
e) La società professionale fra avvocati non è soggetta a fallimento, ritenendosi che l’attività forense vada tenuta distinta dall’attività di impresa.
f) La responsabilità disciplinare del socio concorre con quella della società se la violazione commessa dal socio è ricollegabile alle direttive impartite dalla società.
Prima di soffermarci sulle rilevanti obiezioni mosse dal Consiglio di Stato, conviene delineare lo schema tracciato dalla suddetta bozza di regolamento, in cui si prevede anzitutto che per le società professionali (cioè quelle costituite per l’esercizio di attività per le quali è richiesta l’iscrizione in albi tenuti da Ordini o Collegi) possono essere utilizzate tutte le tipologie previste dal codice civile: società di persone, di capitali, cooperative[4]. I Ministri dell’Industria e della Giustizia hanno raggiunto un’intesa, che consente l’istituzione di società interprofessionali destinate a raccogliere professionisti iscritti a differenti albi; tuttavia, il Ministro della Sanità, “su pressione della Federazione dei medici”[5] ha deciso che la possibilità di istituire società pluriprofessionali non può riguardare l’ambito sanitario.
Nella detta bozza di regolamento, inoltre, è previsto che: a) oltre ai professionisti, anche la società dovrà chiedere l’iscrizione all’Ordine, cui spetterà il controllo iniziale sui requisiti, quello successivo sul loro mantenimento e quello di carattere deontologico[6]; b) la società interprofessionale verrà iscritta all’Ordine corrispondente all’attività svolta in modo prevalente; c) gli albi dovranno prevedere due sezioni: una per le persone fisiche, l’altra per le società; d) il venir meno dei requisiti, senza regolarizzazione nei sei mesi successivi, comporta la cancellazione dall’albo. Il regolamento prevede, infine, che il cliente abbia diritto di chiedere che l’incarico affidato alla società sia eseguito da uno specifico professionista da lui scelto tra i dipendenti della società stessa.
Questo è quanto previsto dalla bozza di regolamento di attuazione della legge Bersani.
Quanto al parere espresso dal Consiglio di Stato, in esso si contesta che l’attività professionale possa essere esercitata attraverso società di capitali, lasciando quindi aperta la sola possibilità di costituire società di persone. Ma il punto centrale della contestazione è la salvaguardia dell’intuitus personae, che è ritenuto alla base dell’attività professionale: la possibilità di esercitare le professioni intellettuali in qualsiasi forma societaria (soprattutto di capitali) secondo il Consiglio di Stato non garantisce la personalizzazione della prestazione. Il carattere fiduciario del rapporto professionista-cliente, emerge con chiarezza dalla disposizione dell’art. 2232 c.c. in cui si prevede che “il prestatore d’opera deve eseguire personalmente l’incarico assunto”. Ed è proprio da tale disposizione che traeva origine il divieto (tutto italiano, del resto) di costituire società professionali, alle quali si è sopperito con la formula degli “sudi associati”, il cui carattere, per l’appunto, di associazione (non di società) permetterebbe di mantenere un contatto più diretto e personale con il cliente.
Sempre ai fini di valorizzare (quasi estremizzandolo) il carattere personale della prestazione professionale (ai fini di tutela del cliente) deve aggiungersi che è fatto obbligo dalla legge di indicare esplicitamente i singoli nomi dei professionisti che offrono i propri servigi attraverso la struttura dello studio associato (art. 1 legge 1815 cit.)[7].
Interessante, al riguardo, è quanto deciso da Cass., SS.UU., n. 2077 del 3 marzo 1994[8], cioè prima che il legislatore intervenisse con la citata legge numero 266. La Corte, chiamata a decidere su una problematica concernente uno studio associato, nel ribadire l’attuale (ovviamente, tale relativamente al tempo della decisione della S. C.) valenza delle disposizioni contenute nella legge del 1939, così concludeva la lunga motivazione della sentenza: “Restano due questioni: quella della illegittimità costituzionale della legge n. 1815 del 1939 nei riflessi sopraindicati alla normativa comunitaria e alla disciplina delle formazioni professionali in vigore negli altri Stati membri della CEE”. Quanto alla prima questione, secondo la S. C., la pretesa situazione di conflitto della normativa in oggetto con il principio di libertà di associazione, di esplicazione della personalità e di uguaglianza, è sicuramente insussistente, attesi i limiti che l’art. 41 della Costituzione prevede nel secondo e terzo comma, riservando alla legge ogni opportuno controllo delle iniziative ed attività economiche: con la conseguenza che “la disposizione (art. 1, legge 1815 del 1939) in ordine alla quale viene espresso il dubbio di costituzionalità, sotto i vari aspetti, appartiene alla discrezionalità del legislatore ordinario, attinente com’è a regolare, secondo criteri di eguaglianza e nel rispetto delle libertà fondamentali, lo svolgimento e l’esercizio delle professioni intellettuali. La questione sollevata appare pertanto, in tutti i riflessi dedotti, manifestamente infondata”. Quanto alla seconda questione, la Corte rileva, da un lato, che l’adeguamento della disciplina interna alla direttiva CEE del 22 marzo 1977 (che consente ai professionisti dei Paesi membri, nonché alle associazioni o società professionali di operare in Italia), attuata con legge n. 31 del 1982, opera nel pieno rispetto della disciplina normativa in materia vigente nei singoli Stati, senza che ciò rappresenti l’ipotizzabilità di una violazione dell’art. 3 della Costituzione in relazione alla diversità di disciplina propria delle associazioni professionali italiane; e, dall’altro, che “il regolamento CEE n. 2137 del 1985 – relativo all’istituzione di un gruppo europeo di interesse economico (G.E.I.E.), con lo scopo di facilitare o sviluppare l’attività economica dei suoi membri – fa espressamente salva «l’applicazione, a livello nazionale, delle norme legali e/o deontologiche relative alle condizioni di esercizio di un’attività o di una professione» e dispone, altresì, che l’attività del Gruppo è soggetta alle disposizioni della legislazione degli Stati membri relative all’esercizio di un’attività e al suo controllo”.
E siamo ai giorni nostri.
Con particolar riferimento agli avvocati, dopo che il Consiglio Nazionale Forense si era espresso nel senso che “la società professionale costituirà un tipo a sé, assimilabile in qualche misura alla società semplice o in nome collettivo”[9], e dopo che la legge comunitaria n. 526/1999 aveva ricondotto la tipologia specifica della società fra professionisti ai principi della personalità della prestazione, del diritto del cliente di scegliere il legale, della responsabilità dell’avvocato e del rispetto della deontologia, è stata (finalmente?) emanata una apposita disciplina[10], secondo cui:
a) La società tra avvocati costituisce un tipo sui generis (s.t.p.), vagamente ispirato alla s.n.c., alle cui norme si fa espresso rinvio.
b) La s.t.p. va iscritta in una sezione speciale del registr
o delle imprese nonché in una sezione speciale dell’albo degli avvocati tenuto dall’Ordine nella cui circoscrizione è posta la sede legale[11].
c) Non possono far parte della società soci di solo capitale, cioè non avvocati.
d) Il cliente ha facoltà di conferire l’incarico genericamente alla società senza indicare il nominativo del professionista, ma in ogni caso la società è solidalmente responsabile con il professionista eventualmente incaricato, il quale risponde con tutto il suo patrimonio anche per le obbligazioni sociali non derivanti dall’attività professionale[12].
e) La società professionale fra avvocati non è soggetta a fallimento, ritenendosi che l’attività forense vada tenuta distinta dall’attività di impresa.
f) La responsabilità disciplinare del socio concorre con quella della società se la violazione commessa dal socio è ricollegabile alle direttive impartite dalla società.
Per proclamare il successo o il (probabile?) flop di tale ibrida forma societaria occorrerà ovviamente attendere le preziose indicazioni offerte dai riscontri dei diretti interessati (gli avvocati, appunto), i quali – da pratici – non sembrano apprezzare particolarmente il passaggio dal c.d. “criterio per cassa” al “criterio della competenza”.
Si rileva, inoltre, una tiepida accoglienza da parte di autorevoli critici, i quali auspicano “tempi e modi per proseguire nel cammino intrapreso”[13]. Come dire: piuttosto che niente…
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[1] Cfr. Gnes – Orlando, Gli ordini professionali all’esame dell’Antitrust, in Giorn. dir. amm., 1995, p. 934.
[2] La legge n. 1815 del 23 novembre 1939, cui si fa cenno nel testo, all’art. 2 dispone: “È vietato costituire, esercire o dirigere, sotto qualsiasi forma diversa da quella di cui al precedente articolo [cioè, studio associato], società, istituti, uffici, agenzie o enti, i quali abbiano lo scopo di dare, anche gratuitamente, ai propri consociati od a terzi, prestazioni di assistenza o consulenza in materia tecnica, legale, commerciale, amministrativa, contabile o tributaria”.
[3] La cit. legge “Bersani” (intitolata “interventi urgenti per l’economia”) all’art. 24, comma 2, dispone, infatti: “ Il ministro di grazia e giustizia, di concerto con il Ministro dell’industria, del commercio e dell’artigianato e, per quanto di competenza, con il Ministro della sanità, fissa con proprio decreto, entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, i requisiti per l’esercizio delle attività di cui all’articolo 1 della legge 23 novembre 1939, n. 1815”. Per completezza riportiamo anche quest’ultima disposizione: “Le persone che, munite dei necessari titoli di abilitazione professionale, ovvero autorizzate all’esercizio di specifiche attività in forza di particolari disposizioni di legge, si associano per l’esercizio delle professioni o delle altre attività per cui sono abilitate o autorizzate, debbono usare, nella denominazione del loro ufficio e nei rapporti coi terzi, esclusivamente la dizione “studio tecnico, legale, commerciale, contabile, amministrativo o tributario”, seguito dal nome e cognome, coi titoli professionali, dei singoli associati”.
[4] Sempre secondo quanto previsto nella detta bozza di regolamento di attuazione della legge Bersani, dovrà tuttavia essere impiegata la locuzione “Società per l’esercizio della libera professione di …” e l’attività prevalente nelle società pluriprofessionali. Su quest’ultimo tipo di società v. subito nel testo.
[5] Venturello, Società professionali, in “La professione di psicologo”, Anno V, n. 3, marzo 1998, p. 11.
[6] L’iscrizione nell’albo professionale di una persona giuridica è un tema che è stato già affrontato da una parte della dottrina, la quale, nel riconoscere che l’apparato professionale, prima di procedere all’iscrizione del soggetto, ne accerta le capacità tecniche attraverso una serie di operazioni selettive (che trovano nelle persone fisiche i loro naturali ed obbligati destinatari), subito aggiunge che “sarebbe impensabile assoggettare le persone giuridiche allo stesso regime di prove abilitative predisposto per i professionisti”, in quanto “sarebbe assai difficile dimostrare che qualità intellettuali e morali proprie dell’individuo, preposto ad un organo della persona giuridica, possano venire trasferite in modo permanente al soggetto giuridico”. A tale dottrina non sembra, pertanto, possibile che una persona giuridica, agendo mediante propri organi, possa venire iscritta nell’albo, usufruendo delle capacità tecniche espresse in sede di esame dall’individuo, dato che “mentre nella persona fisica l’accertamento di una certa capacità intellettuale può esaurirsi in una sola operazione, nei confronti della persona giuridica si dovrebbe, invece, ripetere il procedimento selettivo ad ogni variazione dei soggetti preposti agli organi, che svolgono attività professionale. Nel primo caso, il patrimonio intellettuale può ritenersi costante e sempre naturalmente presente nell’individuo professionista; nel secondo, non si potrebbe ritenere acquisita in modo definitivo dalla persona giuridica la capacità professionale propria dell’individuo, sicché, mancando la persona fisica, il soggetto giuridico verrebbe necessariamente a perdere la qualificazione professionale”. Cfr. Cavallo, Lo status professionale. Parte speciale, Milano, 1969, p. 105 ss.
[7] Sul tema specifico delle associazioni professionali, studi associati e società professionali, cfr. Di Cerbo, Le professioni intellettuali nella giurisprudenza, Milano, 1988, p. 23-31; Latella, Le professioni intellettuali. I profili costituzionalistici, in AA. VV., “Le professioni intellettuali”, Torino, 1987, p. 60 ss.; Meloncelli, Le professioni intellettuali nella Costituzione italiana, in “Scritti per M. Nigro”, vol. I, Milano, 1991, p. 430 ss.; Roversi Monaco, Aspetti pubblicistici della organizzazione delle libere professioni, in F. Carinci e L. Persico (a cura di), “La disciplina delle forme associate tra liberi professionisti nell’ordinamento italiano”, Bologna, 1977, p. 177 ss.; Lega, Le libere professioni intellettuali, op. cit., p. 587 ss.
[8] In Foro it., 1994, I, 1631 e in Rep. Foro it., 1994, voce “Avvocato”, nn. 40 e 72.
[9] Cons. Naz. For. 7 ottobre 1997 n. 5.
[10] Si tratta degli artt. 16 e ss. del decreto legislativo n. 96 del 2 febbraio 2001, che dà attuazione alla Direttiva Europea n. 5/98/Ce del 16 febbraio 1998.
[11] Le sedi secondarie vanno iscritte nell’albo tenuto dall’Ordine nella cui circoscrizione le sedi sono istituite ed in ognuna di esse almeno un socio deve avere un ufficio in cui svolga la propria attività professionale (art. 27).
[12] Sono solidalmente ed illimitatamente responsabili altresì i soci che non abbiano ricevuto l’incarico “diretto” dal cliente, nel caso in cui il mandato professionale sia stato conferito senza che il cliente venga informato del nome dell’avvocato incaricato di seguire l’affare: in tale ipotesi, l’incarico si presume conferito e svolto da tutti i soci.
[13] Remo Danovi, Senza soci di capitale e con la consulenza alle “STP” il passo giusto verso l’integrazione dei mercati, in Guida al Diritto, n. 15/2001, pag. 68.
[2] La legge n. 1815 del 23 novembre 1939, cui si fa cenno nel testo, all’art. 2 dispone: “È vietato costituire, esercire o dirigere, sotto qualsiasi forma diversa da quella di cui al precedente articolo [cioè, studio associato], società, istituti, uffici, agenzie o enti, i quali abbiano lo scopo di dare, anche gratuitamente, ai propri consociati od a terzi, prestazioni di assistenza o consulenza in materia tecnica, legale, commerciale, amministrativa, contabile o tributaria”.
[3] La cit. legge “Bersani” (intitolata “interventi urgenti per l’economia”) all’art. 24, comma 2, dispone, infatti: “ Il ministro di grazia e giustizia, di concerto con il Ministro dell’industria, del commercio e dell’artigianato e, per quanto di competenza, con il Ministro della sanità, fissa con proprio decreto, entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, i requisiti per l’esercizio delle attività di cui all’articolo 1 della legge 23 novembre 1939, n. 1815”. Per completezza riportiamo anche quest’ultima disposizione: “Le persone che, munite dei necessari titoli di abilitazione professionale, ovvero autorizzate all’esercizio di specifiche attività in forza di particolari disposizioni di legge, si associano per l’esercizio delle professioni o delle altre attività per cui sono abilitate o autorizzate, debbono usare, nella denominazione del loro ufficio e nei rapporti coi terzi, esclusivamente la dizione “studio tecnico, legale, commerciale, contabile, amministrativo o tributario”, seguito dal nome e cognome, coi titoli professionali, dei singoli associati”.
[4] Sempre secondo quanto previsto nella detta bozza di regolamento di attuazione della legge Bersani, dovrà tuttavia essere impiegata la locuzione “Società per l’esercizio della libera professione di …” e l’attività prevalente nelle società pluriprofessionali. Su quest’ultimo tipo di società v. subito nel testo.
[5] Venturello, Società professionali, in “La professione di psicologo”, Anno V, n. 3, marzo 1998, p. 11.
[6] L’iscrizione nell’albo professionale di una persona giuridica è un tema che è stato già affrontato da una parte della dottrina, la quale, nel riconoscere che l’apparato professionale, prima di procedere all’iscrizione del soggetto, ne accerta le capacità tecniche attraverso una serie di operazioni selettive (che trovano nelle persone fisiche i loro naturali ed obbligati destinatari), subito aggiunge che “sarebbe impensabile assoggettare le persone giuridiche allo stesso regime di prove abilitative predisposto per i professionisti”, in quanto “sarebbe assai difficile dimostrare che qualità intellettuali e morali proprie dell’individuo, preposto ad un organo della persona giuridica, possano venire trasferite in modo permanente al soggetto giuridico”. A tale dottrina non sembra, pertanto, possibile che una persona giuridica, agendo mediante propri organi, possa venire iscritta nell’albo, usufruendo delle capacità tecniche espresse in sede di esame dall’individuo, dato che “mentre nella persona fisica l’accertamento di una certa capacità intellettuale può esaurirsi in una sola operazione, nei confronti della persona giuridica si dovrebbe, invece, ripetere il procedimento selettivo ad ogni variazione dei soggetti preposti agli organi, che svolgono attività professionale. Nel primo caso, il patrimonio intellettuale può ritenersi costante e sempre naturalmente presente nell’individuo professionista; nel secondo, non si potrebbe ritenere acquisita in modo definitivo dalla persona giuridica la capacità professionale propria dell’individuo, sicché, mancando la persona fisica, il soggetto giuridico verrebbe necessariamente a perdere la qualificazione professionale”. Cfr. Cavallo, Lo status professionale. Parte speciale, Milano, 1969, p. 105 ss.
[7] Sul tema specifico delle associazioni professionali, studi associati e società professionali, cfr. Di Cerbo, Le professioni intellettuali nella giurisprudenza, Milano, 1988, p. 23-31; Latella, Le professioni intellettuali. I profili costituzionalistici, in AA. VV., “Le professioni intellettuali”, Torino, 1987, p. 60 ss.; Meloncelli, Le professioni intellettuali nella Costituzione italiana, in “Scritti per M. Nigro”, vol. I, Milano, 1991, p. 430 ss.; Roversi Monaco, Aspetti pubblicistici della organizzazione delle libere professioni, in F. Carinci e L. Persico (a cura di), “La disciplina delle forme associate tra liberi professionisti nell’ordinamento italiano”, Bologna, 1977, p. 177 ss.; Lega, Le libere professioni intellettuali, op. cit., p. 587 ss.
[8] In Foro it., 1994, I, 1631 e in Rep. Foro it., 1994, voce “Avvocato”, nn. 40 e 72.
[9] Cons. Naz. For. 7 ottobre 1997 n. 5.
[10] Si tratta degli artt. 16 e ss. del decreto legislativo n. 96 del 2 febbraio 2001, che dà attuazione alla Direttiva Europea n. 5/98/Ce del 16 febbraio 1998.
[11] Le sedi secondarie vanno iscritte nell’albo tenuto dall’Ordine nella cui circoscrizione le sedi sono istituite ed in ognuna di esse almeno un socio deve avere un ufficio in cui svolga la propria attività professionale (art. 27).
[12] Sono solidalmente ed illimitatamente responsabili altresì i soci che non abbiano ricevuto l’incarico “diretto” dal cliente, nel caso in cui il mandato professionale sia stato conferito senza che il cliente venga informato del nome dell’avvocato incaricato di seguire l’affare: in tale ipotesi, l’incarico si presume conferito e svolto da tutti i soci.
[13] Remo Danovi, Senza soci di capitale e con la consulenza alle “STP” il passo giusto verso l’integrazione dei mercati, in Guida al Diritto, n. 15/2001, pag. 68.
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