Senza volersi addentrare nella storia evolutiva di tali sistemi di accertamento induttivo, in questa sede è sufficiente rammentare quali fossero:
‐ c.d. Visentini ter (introdotto con il d.l. 853/1984);
‐ i coefficienti presuntivi (introdotti con il d.l. 69/1989);
‐ la c.d. minimum tax (introdotta con d.l. 384/1992);
‐ i parametri (introdotti con l. 549/1995);
‐ gli studi di settore (introdotti con d.l. 331/1993 convertito con modificazioni nella l. 427/1993, ad oggi più volte “rimaneggiati”).
Per i fini che qui interessano, vista l’analogia con il sistema degli studi di settore, ci soffermeremo brevemente sul c.d. Visentini ter e sui coefficienti presuntivi atteso che solo questi prevedevano in capo all’Amministrazione Finanziaria l’onere/obbligo di instaurare un contraddittorio con il contribuente prima dell’emissione dell’atto di accertamento.
Come noto, con la c.d. Visentini ter era previsto per i soggetti forfetari un meccanismo autonomo di determinazione del reddito d’impresa e di lavoro autonomo che andava ad incidere direttamente sui ricavi ed i compensi dichiarati dal contribuente, ai quali dovevano essere applicati dei coefficienti di abbattimento, determinati avendo riguardo ai diversi settori economici maggiormente significativi: dai compensi, ricavi e corrispettivi era ammessa la detrazione analitica dei costi espressamente previsti nei commi 9 e 10 dell’art. 2 d.l. 853/1984.
Nell’art. 2, 29 co., d.lgs. 853/1984, al primo periodo, era previsto che “indipendentemente da quanto stabilito nell’articolo 39 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e negli articoli 54 e 55 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, gli uffici delle imposte dirette e gli uffici dell’imposta sul valore aggiunto possono, previa richiesta per raccomandata al contribuente di chiarimenti da inviare per iscritto entro quarantacinque giorni, rettificare le dichiarazioni annuali presentate dai contribuenti che si sono avvalsi dei regimi di determinazione del reddito e dell’imposta sul valore aggiunto stabiliti nei precedenti commi 1, 9 e 10 determinando induttivamente l’ammontare dei ricavi e dei compensi ovvero dei corrispettivi di operazioni imponibili in misura superiore a quella dichiarata, sulla base di presunzioni desunte, in relazione al tipo di attività, da uno o più dei seguenti elementi […]”.
Sin da subito professionisti, dottrina e giurisprudenza, si sono posti la domanda su quale potesse essere l’effettiva portata della norma laddove prevedeva “la previa richiesta […] di chiarimenti”.
Purtroppo per il contribuente, la giurisprudenza di merito e di legittimità hanno decretato la morte pratica (fors’anche per questioni di entrate Erariali) del contraddittorio pre processuale.
Premesso che sarebbe lungo ed estenuante citare la giurisprudenza in merito, val solo la pena di rammentare che la Suprema Corte, con la sentenza n. 15134/2006 ha evidenziato che l’inosservanza del procedimento pre contenzioso stabilito nella succitata norma non costituisce causa di nullità dell’accertamento e, pertanto, di inefficacia delle presunzioni stabilite dalla stessa legge atteso che al contribuente è data comunque la facoltà di far valere le proprie doglianze in sede processuale.
Nel motivare tale decisione, la Corte di Cassazione ha rilevato come nel nostro ordinamento esistano svariati esempi di provvedimenti emessi inaudita altera parte (ricorso per decreto ingiuntivo, procedimenti cautelari e d’urgenza): essi sono comunque legittimi attesa la possibilità per il destinatario degli stessi di poter instaurare un (successivo) contraddittorio avanti al giudice del merito. In vigenza dei coefficienti presuntivi, a seguito delle novelle legislative che li hanno interessati, gli Uffici, prima di emettere l’avviso di accertamento nei confronti dei contribuenti minori, che non avessero optato per la contabilità ordinaria, in sede di applicazione dei coefficienti presuntivi di reddito, dovevano avviare il contraddittorio con il contribuente, inviando una raccomandata con la quale si chiedeva la comunicazione di eventuali elementi giuridicamente validi a giustificare la dichiarazione di ricavi, corrispettivi e compensi inferiori a quelli risultanti dall’applicazione dei coefficienti medesimi.
In verità, l’Ufficio finanziario, prima di procedere con il sistema delle presunzioni, era tenuto a verificare l’esistenza o meno di uno scostamento ingiustificato tra i ricavi dichiarati e quelli quantificati applicando ai parametri conosciuti i corrispondenti coefficienti presuntivi.
A fronte di giustificazioni assenti ovvero insufficienti, qualora l’ufficio avesse deciso di iniziare l’accertamento per coefficienti, doveva inviare la predetta comunicazione.
Il contribuente, a sua volta, entro 60 giorni, comunicava i dati e le notizie richiesti, nonché poteva dimostrare che i coefficienti presuntivi di reddito non potevano essere applicati nei suoi confronti “in relazione alle specifiche condizioni di esercizio della propria attività”.
Inizialmente, però, non erano state previste conseguenze per eventuali vizi del procedimento di accertamento e, in particolare, gli effetti negativi scaturenti dalle omissioni in cui fosse incorsa l’Amministrazione finanziaria.
Successivamente, a seguito delle svariate novelle che hanno interessato la normativa di cui trattasi, fu dapprima prevista la decadenza dal potere di accertamento da parte dell’Agenzia e successivamente la nullità dell’atto impositivo, secondo taluna giurisprudenza rilevabile anche ex officio (Comm. trib. reg. Basilicata, 26 novembre 1996).
Parte della dottrina ritiene, comunque, che, anche prima del 1993, qualora l’Ufficio avesse proceduto all’accertamento, senza acquisire preventivamente le ragioni dei soggetti d’imposta, avrebbe attuato una procedura illegittima in quanto affetta, secondo i principi che regolano, in generale, i procedimenti amministrativi, dal vizio di violazione di legge.
In senso conforme, d’altra parte, era già orientata la stessa giurisprudenza, mentre era dato constatare, per contro, l’assenza di una decisa presa di posizione da parte dell’Amministrazione finanziaria.
Rivolgiamo ora la nostra attenzione all’argomento del dialogo odierno partendo da una premessa fondamentale, che forse non troverà buona sorte in parte dell’uditorio: gli studi di settore non sono tout court il demonio: sono come le armi… tutto dipende da come vengono maneggiati.
Gli studi di settore sono stati fatti oggetto di numerose modifiche legislative dalla loro introduzione, di tali modificazioni ben quattro sono avvenute negli ultimi due anni: nella loro ultima formulazione, in vigore dal primo gennaio scorso, è passibile di accertamento praticamente chiunque, eccezion fatta per i soggetti ricompresi nelle fattispecie disciplinate al comma 4 dell’art. 10.
Il “contentino” dato al contribuente a fronte dell’ampliamento della platea dei soggetti accertabili tramite tale strumento matematico statistico, nonché dell’eliminazione del bonus del due su tre in caso di scostamento dal modello matematico, è rinvenibile nel comma 3 bis del ben noto art. 10, in vigore dal 3 dicembre 2005, con il quale è stato previsto che “nelle ipotesi di cui ai commi 2 e 3 l’ufficio, prima della notifica dell’avviso di accertamento, invita il contribuente a c
omparire a’ sensi dell’art. 5 d.lgs. 218/1997”:
tale norma, dettata in tema di accertamento con adesione, prevede una richiesta di chiarimenti riguardante la determinazione induttiva di ricavi, compensi e volumi di affari sulla base di coefficienti presuntivi.
Con la novella, per il vero non tanto buona, in vigore dal 4 luglio 2006 che ha abrogato i commi 2 e 3 dell’art. 10, l’invito a comparire è stato, pertanto, esteso a tutti i soggetti passibili di accertamento.
A questo punto, anche alla luce dei precedenti storici in materia, è legittimo domandarsi quale possa essere il valore da attribuire alla novella introdotta all’art. 3 bis della legge che ha creato gli studi di settore.
A parere dello scrivente, e di ben più autorevole dottrina, il problema della richiesta di chiarimenti può essere analizzata sotto due punti di vista diversi, ma tra loro intimamente connessi:
a) sussiste un obbligo giuridicamente tutelato di invitare il contribuente a comparire?
b) sussiste in capo all’Amministrazione Finanziaria un obbligo di motivazione in relazione agli elementi di “difesa” proposti dal contribuente in sede di comparizione?
A.‐ Per quanto attiene al primo quesito, la risposta da dare in ordine all’obbligatorietà della convocazione per chiarimenti, a parere del sottoscritto, non può che essere positiva. E ciò per vari motivi.
‐. L’attuazione del contraddittorio espressamente ora prevista dal Legislatore (prima, comunque, caldeggiata dagli organi centrali dell’Amministrazione finanziaria ‐si veda sul punto la circolare 110/E del 21 maggio 1999‐), riveste un ruolo fondamentale per l’acquisizione da parte dell’Ufficio impositore di dati necessari a dare dimensione concreta al modello: lo studio di settore, infatti, è un modello matematico statistico che non può fotografare, né diversamente potrebbe farlo, la realtà del contribuente sig. Rossi che opera a Trento in Viale Verona, dal 2004.
Il modello offerto da tale sistema induttivo (ancorché lo si voglia far passare per strumento analitico di accertamento) rappresenta una figura inesistente nella realtà, frutto di formule incomprensibili ai più: il contraddittorio in sede pre processuale serve a calare nella dimensione concreta ciò che è astratto e che, quindi, ha natura di mera presunzione.
Sul punto anche la Suprema Regolatrice è precisa nel rammentare che gli studi di settore, in considerazione della natura di atti amministrativi generali di organizzazione, non possono essere considerati sufficienti perché l’ufficio tributario operi l’accertamento di un rapporto giuridico tributario di specie ultima senza che l’attività istruttoria amministrativa sia completata nel rispetto del principio generale del giusto procedimento, cioè consentendo al contribuente, a’ sensi dell’art. 12, 7 co., dello Statuto del Contribuente di intervenire già in sede procedimentale amministrativa, prima di essere costretto ad adire il giudice tributario, per vincere la mera presunptio hominis costituita dagli studi di settore (Cass. sent. 19 luglio 2006 n. 16483).
Solo così, continua la Corte di Cassazione in altra sentenza (Cass. sent. 28 luglio 2006 n. 17229), può ritenersi effettuato il passaggio dal piano delle categorie generali e astratte degli studi di settore a quello singolare e concreto dell’accertamento della capacità contributiva effettivamente manifestata dal contribuente.
‐. Un diniego di contraddittorio, che, si ripete, è legislativamente previsto, sarebbe una evidente violazione dei principi di costituzionali di imparzialità e buon andamento dell’attività della Pubblica Amministrazione sanciti dall’art. 97 della Carta Costituzionale.
Sotto il principio di imparzialità, nel caso che qui interessa, si impone all’Amministrazione Finanziaria, prima di emanare l’atto di accertamento, di verificare diligentemente la situazione di fatto su cui si interviene.
Dal punto di vista del buon andamento si richiede che l’Amministrazione utilizzi cum grano salis le risorse di cui dispone e che, pertanto, si evitino accertamenti alla cieca suscettibili di ragionevole modifica o ritiro alla luce degli spunti offerti dal contribuente davanti al Giudice.
Ciò, oltre ad evitare una inutile ‐e costosa in termini di risorse‐ attività all’Agenzia consente al contribuente di evitare contenziosi che, prima dell’intervento della Corte Costituzionale in materia di condanna alle spese in caso di soccombenza virtuale, lo vedevano pragmaticamente perdente in partenza: il contribuente, infatti, in caso di annullamento in autotuela da parte dell’Amministrazione in conseguenza della palese bontà delle proprie doglianze, si trovava non solo a subire un “ingiusto” processo, ma anche a sostenerne per intero le spese.
Si aggiunga, infine, il fatto che i condoni succedutisi negli anni hanno alleggerito il carico delle Commissioni tributarie (a Trento si hanno due gradi di giudizio in circa 22 mesi!): perché volerle soffocare nuovamente?
Si tenga conto che sono soggetti agli studi di settore circa 5 milioni di contribuenti.
‐. Senza, comunque, voler necessariamente “scomodare” il passepartout dei principi costituzionali ed i principi generali introdotti con lo Statuto del Contribuente, si può comunque riflettere anche sul semplice tenore letterale della norma, la quale prevede, appunto, che l’Ente “inviti” il contribuente a comparire.
Se il Legislatore non avesse inteso attribuire a tale invito una collocazione rilevante nell’ambito del procedimento amministrativo di formazione dell’atto impositivo, ben avrebbe potuto ometterlo.
Il normale procedimento di accertamento prevede, infatti, accanto a specifiche norme che dispongono il coinvolgimento del contribuente nell’iter formativo dell’atto (si pensi ad esempio agli artt. 36 bis e 36 ter D.P.R. 600/1973), un generico potere dell’Ufficio di convocare il contribuente: per le imposte dirette si tratta dell’art. 32, 1 co. n. 2, D.P.R. 600/1973 il quale, appunto, dispone che gli Uffici delle Imposte possono “invitare i contribuenti, indicandone il motivo, a comparire di persona o per mezzo di rappresentanti per fornire dati e notizie rilevanti ai fini dell’accertamento nei loro confronti”, mentre per l’IVA dell’art. 51, 2 co. n. 2, D.P.R. 633/1972.
L’omissione di tale facoltà di convocazione è, ovviamente, priva di sanzione.
L’aver espressamente previsto nel testo legislativo degli studi di settore un’attività già generalmente riconosciuta all’Amministrazione deve necessariamente essere considerato quale volontà di rendere tale “invito” come qualcosa di più di un mero consiglio/suggerimento: si tratta, a mio avvisto, di un vero e proprio obbligo per l’Ufficio procedente; d’altra parte i latini insegnano che “ubi lex voluit dixit, ubi noluit non dixit”.
Ovviamente, accedendo a tale interpretazione sistematica, si arriva necessariamente a ritenere che il contraddittorio diviene uno degli elementi costitutivi del procedimento amministrativo tributario la cui omissione non può che comportare un vizio dell’atto finale.
Tale vizio, secondo i principi generali del procedimento amministrativo dettati dalla l. 241/1990, applicabile, seppur con qualche limitazione attesa la peculiarità della materia, al procedimento di formazione dell’atto di accertamento tributario, non potrà che configurarsi con l’annullabilità dell’atto emesso contra legem: è, infatti, principio generale che il provvedimento amministrativo adottato in violazione di legge è annullabile, non necessitandosi sul punto apposita norma sanzionatoria atteso che, si ripete, è regola generale che l’assenza di un presupposto di un procedimento amministrativo infirma tutti gli atti nei quali il procedimento si articola (ex plurimis Cass. civ. sent. 1 ottobre 2004 n. 19689.
Mi si permetta, infine sul punto, una breve nota critica: perché quando fa “comodo” all’Ente impositore che il contribuente si presenti per fornire le informazi
oni richieste dall’Amministrazione, il contribuente negligente, oltre a venir sanzionato con l’emissione di un atto a questi sfavorevole, viene anche sanzionato ulteriormente in via amministrativa?
Perché quando la legge, al contrario, prevede che l’Amministrazione convochi il contribuente per fornire delle informazioni che potrebbero giovare al contribuente medesimo e questa non ottempera, non vi è sanzione alcuna?
Mi pare che il concetto di cooperazione tra Amministrazione e Contribuente sancito dallo Statuto del Contribuente al comma 7 dell’art. 12, se non interpretato come sopra detto, ritenendo quindi applicabile la sanzione generale dell’annullabilità all’atto emesso in violazione del contraddittorio, sia un concetto di cooperazione a senso unico.
B.‐ Data, quindi, per scontata l’obbligatorietà dell’instaurazione del contraddittorio prima dell’emissione dell’atto di accertamento, ci rimane da esaminare quale debba essere la posizione dell’Agenzia di fronte alle “difese” dispiegate dal contribuente in fase amministrativa.
Sin da quando non era prevista l’obbligatorietà del contraddittorio, l’Amministrazione Centrale aveva invitato gli organi periferici a convocare, sulla falsa riga della procedura di accertamento con adesione, il contribuente al fine di chiarire la propria posizione: in particolare aveva previsto che “le osservazioni formulate dai contribuenti nel corso del contraddittorio andranno attentamente valutate motivando sia l’accoglimento che il rigetto delle stesse.”
Se tale indirizzo era stato dettato in un’epoca in cui il contraddittorio era delegato al buonsenso del funzionario addetto, a maggior ragione deve essere fatto proprio dall’Agenzia ora che sussiste un obbligo di convocazione.
In particolar modo, giova ricordare come con la circolare n. 21 del 7 giugno 2004 l’Agenzia, riconoscendo la centralità del contraddittorio, ammette che la convocazione consente una più fondata e ragionevole “misurazione” del presupposto impositivo che tiene conto degli elementi di valutazione offerti dal contribuente, soprattutto nelle ipotesi in cui siano applicate metodologie presuntive di accertamento che, sia pure particolarmente affidabili quale quella degli studi di settore, possono non aver colto le peculiarità dell’attività concretamente esercitata.
Continua, poi, l’Agenzia richiamando quanto precisato nel paragrafo 4.1 della circolare n. 65/E del 28 giugno 2001, in merito alla circostanziata motivazione sia dell’atto di adesione sia dell’eventuale avviso di accertamento nei quali devono essere puntualmente indicati:
‐ gli elementi di valutazione addotti dal contribuente ed i relativi documenti prodotti;
‐ i percorsi logico‐giuridici che conducono alla revisione dell’originaria pretesa;
‐ i criteri adottati per la rideterminazione della base imponibile, in stretta connessione con gli elementi che, a seguito del contraddittorio svolto, hanno a tal fine assunto rilevanza.
Ovviamente tale obbligo di motivazione deve essere usato con buon senso, ma non solo da parte dell’Amministrazione, bensì soprattutto da parte del difensore del contribuente.
Purtroppo, nella vita professionale di tutti i giorni, i professionisti, tra cui ovviamente mi includo, chiamati a tutelare gli interessi dei propri clienti hanno il “brutto vizio” di sollevare accanto ai veri e giusti motivi di doglianza eccezioni molto fantasiose e defatigatorie, nella speranza, forse, di prendere la controparte anche per sfinimento.
L’obbligo di motivazione in merito alle precisazioni offerte da parte del contribuente si potrà ritenere adeguatamente assolto laddove risulti che le suddette precisazioni sono state prese in considerazione, adeguatamente valutate e ragionevolmente superate anche se in modo non analitico, ossia una ad una: in altri termini sarà sufficiente che nello sviluppo logico e discorsivo della motivazione il superamento delle doglianze del convocato risulti convincente dal complesso del ragionamento.
Ovviamente, anche in questo caso, e forse in modo più eclatante, la violazione dell’obbligo di esporre le ragioni di fatto e di diritto che hanno portato l’Amministrazione a non accogliere la tesi difensiva del nostro sig. Rossi (non penso, infatti, che il contribuente si dorrà del fatto che non sia stato congruamente motivato un atto a questi favorevole) non potrà che condurre ad un vizio di motivazione, pacificamente riconosciuto come causa di nullità dell’atto: il tenore dell’ultimo comma dell’art. 42 D.P.R. 600/1972 è chiaro ed inequivocabile laddove prevede, appunto a pena di nullità, che l’avviso di accertamento deve essere motivato in relazione ai presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che lo hanno determinato.
Sulla questione, è illuminante la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Macerata, sezione III, del 22 marzo 2002 la quale, in materia di accertamento con adesione, sulla falsa riga del quale è disciplinata la fase pre contenziosa degli studi di settore, ha rammentato che di tutta la fase del contraddittorio deve essere redatto un verbale preciso che riporti le giustificazioni e le prove addotte dal contribuente.
In particolare, all’esito del contraddittorio si profilano tre ipotesi:
‐ il contribuente non si presenta al contraddittorio e allora l’Ufficio prosegue nelle sue pretese, salvo eventuale prova contraria in sede contenziosa, notificando l’atto di accertamento;
‐ le giustificazioni sono ritenute valide e quindi l’Ufficio desiste dalle ulteriori pretese o le riduce nella misura in cui accetta le giustificazioni del contribuente, archiviando o facendo firmare un atto di adesione per un imponibile minore;
‐ l’Ufficio ritiene di non poter accettare le giustificazioni del contribuente e allora prosegue nell’accertamento, notificandolo.
In ogni caso è necessario che l’Ufficio rediga, a pena di nullità del procedimento, verbale di quanto è avvenuto a seguito dell’invito al contraddittorio, precisando le giustificazioni addotte dal contribuente e motivando la loro ritenuta non accettabilità.
Pertanto deve sostenersi che l’accertamento costituisce l’atto finale di un “procedimento” cui partecipa quale parte necessaria anche il contribuente: procedimento che deve risultare dalle dovute verbalizzazioni.
Quando l’Ufficio non accetta totalmente o anche solo parzialmente le giustificazioni addotte dal contribuente, esso Ufficio deve esplicitare nell’atto di accertamento i motivi per cui non ha accettato in tutto o in parte i motivi addotti dal contribuente.
La citata sentenza prosegue, poi, dichiarando che va riconosciuto come sussistente il vizio di carenza di motivazione (e quindi l’annullabilità dell’atto), tutte le volte che l’Ufficio, malgrado il pressante invito delle Circolari Ministeriali, non provvede a riportare nell’atto di accertamento i motivi per cui non ha ritenuto giustificativi quelli addotti dal ricorrente.
E fa anche un passo ulteriore, molto importante.
Il Collegio si sofferma, infatti, anche sulle ipotesi di “mutevolezza” dell’imponibile accertato nelle tre fasi: a) accertamento iniziale, b) in fase di contraddittorio, c) alla notifica dell’accertamento definitivo.
Nei casi in cui l’accertamento iniziale sia di importo identico a quello definitivo, mentre in contraddittorio è stata offerta al contribuente la definizione ad un valore diverso, prosegue la Commissione, l’Ufficio non solo deve motivare nel senso sopra indicato, ossia esporre le ragioni del contribuente ed i motivi del rigetto, ma deve anche fornire chiarimenti e spiegazioni circa il suo comportamento nell’iter procedimentale sfociato nell’atto impugnato: dove, in altri termini, deve spiegare perché, accettando parzialmente le difese del contribuente, in sede di contraddittorio aveva proposto la riduzione dell’imponibile (nel caso concreto del 50%) e poi, a seguito del rifiuto a firmare da parte del contribuente che ritiene di aver diritto ad una maggiore riduzione, ha proceduto
all’accertamento senza più tener conto della percentuale di “sconto” che esso stesso Ufficio aveva riconosciuto.
Indubbiamente, commenta l’organo giurisdizionale, si tratta di una contraddizione che inficia l’atto amministrativo finale di accertamento e pregiudica la credibilità dell’atto medesimo e, quindi, ne sancisce l’annullabilità.
Questo dimostra focalità del contraddittorio tra contribuente ed Amministrazione e la serietà con cui entrambe le parti si devono reciprocamente approcciare.
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