Rivetta si limitò ad uno sguardo interrogativo.
«E’ quel simpaticone di Sagnoli: sta servendo in questo momento, là sul campo 3».
«Ma tu sai, invece, con chi sta giocando?», mi chiese il collega tra il divertito e l’allarmato.
«No … con chi?».
«E’ Schulz, il giudice designato nel tuo giudizio» rispose l’amico.
Dopo una serie di improperi ed una digressione sulla sleale concorrenza dell’avvocato Sagnoli, Rivetta mi disse. «Guarda che, se vuoi, ci puoi giocare anche tu. Schulz è un fanatico del tennis e – come tutti gli scarsi – è sempre in cerca di qualcuno con cui fare partita … puoi chiedere a Carli: lui ti può organizzare l’incontro».
Gli strinsi la mano e mi allontanai soddisfatto: era la sera prima della data dell’udienza. Non avevo fatto dieci passi che il maestro, con noncuranza, mi richiamò e, con tono un po’ più basso, mi riferì: «Dimenticavo. Lo sai – vero – qual è la regola per gli avvocati che giocano con Schulz?»
«Non dirmi che devo farlo vincere – e magari senza che se ne accorga – altrimenti perderò tutte le future udienze con lui?!» suggerii.
«Esatto. Lo sapevi già. Ricordati che l’avvocato Persiano, qualche anno fa, fece l’errore di vincere e piange ancora adesso, tutte le volte che viene al circolo. Dice che, quando presiede l’udienza Schulz, deve mandare la sua socia di studio e, anche così, ne perde nove su dieci».
«Non c’è problema» conclusi «tanto lo sai che io in partita non vinco mai».
Effettivamente, era nota nel club la grande differenza tra il livello del mio gioco quando si palleggia e quando, invece, si contano i punti. Il tennis è uno sport che richiede scioltezza nel movimento del braccio. Non appena comincia il match, l’adrenalina prodotta dall’aumento di tensione mi provoca l’irrigidimento dell’arto e mi viene il classico “braccino”.
Così, quando mercoledì sera iniziò l’incontro con il mio magistrato, ero sereno: per una volta avrei perso ma sarei stato contento di essere sconfitto. Tuttavia – si sa – il braccino è una conseguenza della paura e, in quella situazione di tranquillità, desideroso di perdere con un pallettaro come Schulz, iniziai a giocare splendidamente. L’emozione nel tennis gioca brutti scherzi soprattutto davanti ai classici rigori: quando cioè l’avversario tira una palla morbida, che rimbalza a mezza altezza e a metà campo. In quei casi il giocatore bravo si sente obbligato a chiudere il punto, con un movimento elegante del braccio che spedisca la palla in un punto imprendibile del campo. Ebbene, quella sera con il giudice mi sentivo in grado di non sbagliare nemmeno una di quelle palle.
Per cercare di perdere dovetti quindi inanellare una quantità smisurata di doppi falli, ai quali facevo sempre seguire scuotimenti di testa e qualche parolaccia per renderli credibili agli occhi del mio avversario. Con grande sforzo riuscii così a perdere il primo set per 6 a 4.
Nel secondo fui più bravo: riuscii ad intervallare i soliti falli di servizio con un buon numero di errori da fondo campo. L’unica soddisfazione era che, prima di sbagliare, facevo correre quel tracagnotto di Schulz tre o quattro volte da una parte all’altra del campo. Arrivammo così sul 5 a 0 per lui, ma a quel punto si verificarono tre avvenimenti che cambiarono il corso del match.
Uno. Al cambio di campo, il giudice, sudatissimo e paonazzo, mi guardò con aria di trionfo. Sembrava dicesse: «Tu forse avrai colpi migliori dei miei, ma io, in partita sono più intelligente». Due. Nel game successivo, quando, dopo aver chiuso gli occhi un attimo prima dello smash, steccai la palla in out, il magistrato, che fino ad allora aveva parlato veramente poco, mi istruì: «Vede avvocato, quando deve effettuare una schiacciata deve alzare il braccio sinistro seguendo la traiettoria della palla, altrimenti la sbaglierà sempre». Tutti sanno che perdere a tennis è brutto, ma essere sconfitti da un avversario (per giunta più scarso) che pretende anche di insegnarti come si gioca è terribile. Tuttavia, quello che mi stava ammaestrando era il mio giudice del cautelare; io sono un avvocato ed ho il dovere di fare tutto il possibile affinché il mio cliente vinca la causa. Quindi, ascoltai la lezione con un sorriso ebete e tornai a giocare. Tre. Il punto successivo non volevo perderlo, un po’ perché ero irritato un po’ perché mi scocciava subire un 6-0, ma fu vinto ugualmente dal mio avversario con una palla che colpì il nastro e rimbalzò nel mio campo a pochi centimetri dopo la rete. Non fu quello che mi fece imbestialire. Fu il “pugnetto” che, voltandomi le spalle per non farsi vedere, il giudice agitò: io sono abituato a perdere a tennis e riesco anche a prenderla con un minimo di filosofia, ma se il mio avversario mostra di godere della mia sconfitta divento matto.
Avvenne così che cominciai a giocare seriamente. Non pensai subito di vincere. Inizialmente avevo solo voglia di fargli vedere come si gioca a tennis. Godevo semplicemente a vedere le gambette di quel pallone gonfiato correre da destra a sinistra e da sinistra a destra e la smorfia di disappunto che si stava formando sul suo volto segnato dalla fatica.
Solo dopo aver vinto per sette a cinque il secondo set ed essere arrivato sul tre a zero nella decisiva partita realizzai che del Bonini, mio cliente e socio di minoranza della ENAC, non me ne fregava molto e che tenevo molto di più a non perdere questo incontro. Naturalmente, quando il pensiero di voler vincere mi attraversò il cervello, il braccino fece la sua ricomparsa. Ero però molto più forte di quel manovale della racchetta, sicché non potevo uscire sconfitto.
Arrivammo così sul cinque a due, quaranta a zero per me: match point. Servii una bomba (si fa per dire) e quell’omino mediterraneo con l’incoerente cognome teutonico riuscì solo a ribattere con una palla “slonza” a metà campo. Mi avventai come un falco preparando il mio dritto nel modo corretto e stavo per sferrare un incrociato alla Federer quando accadde l’irreparabile.
TSCHLAK!!
Si spensero le luci di illuminazione del campo. Io colpii ugualmente la palla, la quale – lo avvertii con il braccio – finì all’incrocio delle righe nel campo avversario. Ma nessuno vide niente a causa del buio sopraggiunto: né il mio avversario né i numerosi spettatori.
Velocissimo corsi alla panchina e, preso un gettone, pregai Rivetta di correre a riaccendere i riflettori, ma l’amico mi ricordò che il soldo deve essere inserito prima che le lampade si spengano. Ora avremmo dovuto aspettare almeno un quarto d’ora che si fossero raffreddate. Alla fine, fummo costretti a sospendere l’incontro, a farci la doccia senza praticamente rivolgerci la parola ed a prenotare nuovamente il campo per il mercoledì successivo.
Me ne tornai a casa nero. Non avevo né vinto né perso. Non avevo soddisfatto il mio orgoglio di tennista e mi trovavo nel dubbio sulla reazione che avrebbe avuto Schulz: avrebbe considerato questa come una sconfitta o come una vittoria, ai fini dell’udienza?
Non mi rimase che mangiare ossessivamente tutto il materiale organico presente in cucina e scolarmi una bottiglia di rosso. Poi mi stordii un’oretta davanti alla TV ed andai a schiantarmi nel letto senza togliermi i vestiti.
Mi svegliai molto riposato, stupito di essere riuscito a dormire così bene dopo aver bevuto e mangiato ad ora tarda. Fra l’altro quella mattina avevo il cautelare Bonini contro ENAC s.p.a. ed io generalmente, prima delle udienze importanti, non riesco a riposare bene.<
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I raggi del sole filtravano dalle imposte: dall’intensità doveva essere una giornata stupenda. Fra l’altro era ancora presto, perché la sveglia non aveva ancora suonato. Presi il Rolex d’acciaio dal comodino e cercai di leggere l’ora, ma, a causa della troppa luce che entrava dalle persiane, non riuscivo a leggere i numeri fosforescenti. Infilai allora la testa sotto le coperte e quando riuscii a leggere l’orario mi venne un colpo: erano le dieci e un quarto e l’udienza con Schulz doveva iniziare alle undici.
Mi vestii a rotta di collo e mi precipitai a prendere la macchina. Partii sgommando. Il tom tom diceva che sarei arrivato davanti al Tribunale alle 11 e 10: un orario accettabile. Telefonai in studio chiedendo di avvisare l’avvocato Sagnoli che avrei tardato un po’, ma mi richiamarono dicendo che era già uscito. Pregai qualcuno dello studio di andare davanti alla stanza di Schulz ma erano tutti fuori e nessuno si trovava nel Palazzo. Accelerai ancora di più, ma quando svoltai in via Carducci mi trovai davanti all’inferno: una manifestazione di studenti aveva bloccato il traffico in ogni direzione. Non potevo nemmeno fare inversione e tornare indietro perché la corsia in senso opposto era separata da uno spartitraffico e dietro di me si erano già accodate decine di macchine.
Ero disperato. Sapevo per certo che Sagnoli non avrebbe fatto il signore: decorsa la canonica mezz’ora senza vedermi, avrebbe chiesto con aria desolata al giudice di archiviare il cautelare.
E’ quando sei perduto che le facoltà sensoriali si acuiscono. Vidi con la coda dell’occhio nel retrovisore un moticiclista dall’aria familiare che stava zigzagando fra le vetture. Era il Taviotti, il praticante più antipatico e supponente del tribunale e che, per questa ragione, non avevo mai degnato nemmeno di un “buongiorno”. Se sei nel “guano” anche l’orgoglio va a farsi benedire. Ebbi un’illuminazione: il Taviotti – se non erravo – si chiamava di nome Raimondo.
«Raimondo! Raimondo!» iniziai ad urlare dal finestrino al motociclista che mi aveva appena sorpassato. Richiamarlo indietro, spiegargli la situazione superando con una buona dose di faccia di bronzo la sua espressione stupita ed anche un pochino indignata per il fatto che gli rivolgessi la parola solo nel momento del bisogno, fu un attimo.
Dopo pochi minuti mi trovavo in sella al motorino e stringevo la vita flaccida del Taviotti senza nemmeno un po’ di ribrezzo, anzi con una certa voluttà. Guardai l’ora. Erano già le undici e venti. Strinsi più forte l’adipe del guidatore, come avessi gli speroni e lui fosse un cavallo, e Raimondo, senza lamentarsi, aumentò l’andatura. In fondo anche il Taviotti era un buon ragazzo. Mi ripromisi di salutarlo sempre in futuro e di presentargli qualche praticante carina.
Arrivai davanti al Tribunale alle undici e trentacinque, ma ero ancora fiducioso perché il mio orologio è sempre avanti di cinque minuti. Percorsi gli scalini a due a due ed alle undici e trenta precise – così diceva il quadrante appeso al muro dell’anticamera – piombai sulla porta della stanza d’udienza.
Ivi vidi Schulz e Sagnoli, seduti, che parlavano amabilmente.
«Scusatemi tantissssimo» dissi con il fiatone «Sono rimasto imbottigliato nel traffico. Ma ora sono qui, possiamo cominciare».
«Mi spiace avvocato, l’udienza è finita» … «Ho rinvenuto una mancanza di notifica».
«Come?» chiesi allarmato.
«Sì, in questi casi è necessaria la notifica anche ai sindaci».
«Ma la legge non lo richiede!».
«Lo so, lo so, ma non si può intervenire sull’amministrazione di una società senza sentire il parere dei sindaci».
«Ed allora ha respinto la mia istanza cautelare?» domandai.
«No, no, non l’ho ancora esaminata, ho solo rinviato l’udienza di pochi giorni, giusto il tempo per consentirle di notificare ai sindaci» replicò pacato il giudice designato.
Estraendo l’agenda chiesi – sollevato – la data del rinvio.
«Giovedì prossimo, ore di rito» disse sorridendo Schulz «E noi due, avvocato Ferrari, ci vediamo mercoledì sera, al circolo».
I fatti descritti nel racconto sono in gran parte veri ma invece i nomi sono di fantasia, sicché qualsiasi omonimia deve essere considerata una pura coincidenza.
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