§ 1. La provocazione.
§ 2. Il concorso del fatto colposo del danneggiato.
§ 3. Svolgimento del processo.
§ 4. Breve nota a sentenza.
§ 1. La provocazione.
Secondo il codice penale costituisce attenuante comune “l’aver agito in stato d’ira, determinato da un fatto ingiusto altrui” (art. 62, n. 2) [1].
Essa è caratterizzata da tre elementi essenziali: a) lo stato d’ira, b) il fatto ingiusto altrui, c) il rapporto di causalità tra offesa e reazione[2].
Quanto allo stato d’ira, esso suole anzitutto tenersi distinto “da stati d’animo diversi, quali il risentimento, l’odio, il rancore, la vendetta”[3], ed in particolare consiste in “un impulso emotivo incontenibile che provoca nell’agente la perdita dei poteri di autocontrollo”[4], ossia in una eccitazione psichica capace di incidere sul funzionamento dei freni inibitori[5].
Il riconoscimento dell’attenuante in parola è quindi subordinato alla condizione che il reato sia stato commesso non già in un generico stato di emozione e di turbamento d’animo, ma in uno stato d’ira per cui l’agente abbia perduto il controllo di sé a causa di un determinato fatto ingiusto altrui[6].
Ovviamente, vertendosi in tema di emozioni, non è facile distinguere l’ira dall’odio, poiché i confini delle rispettive categorie finiscono spesso per coincidere[7]. Ai nostri fini, pertanto, l’indagine (necessariamente giuridica) non può che concentrarsi sugli elementi oggettivi dell’attenuante, cioè sul “fatto ingiusto del danneggiato” e sul “rapporto di causalità” tra questo ed il danno[8].
Come accennato, affinché il comportamento del danneggiato possa essere considerato provocatorio, è necessario che esso si concreti in un fatto ingiusto, ossia in un “comportamento contrastante con norme giuridiche o anche solo morali, sociali o di costume che regolano la civile convivenza”[9]. Tale requisito deve essere rigorosamente provato (con onere a carico del danneggiante ex art. 2697 c.c.)[10], poiché nel nostro ordinamento non è ammissibile una provocazione putativa[11]. In altri termini, sarebbe del tutto irrilevante la soggettiva valutazione dell’agente, in quanto l’ingiustizia del fatto deve essere individuata e determinata con criteri obiettivi, nel senso cioè che “il fatto deve essere ingiusto obiettivamente e non solo in relazione alle condizioni psichiche di colui al quale esso è diretto”[12].
Quanto al rapporto di causalità tra fatto ingiusto e danno, per accertarne la sussistenza occorre valutare la proporzionalità tra la “provocazione” e la (re)azione del danneggiante, poiché, qualora quest’ultima appaia manifestamente spropositata rispetto al fatto provocatorio, deve escludersi la sussistenza del nesso causale in quanto “la risposta criminosa non sarebbe adeguata e apparirebbe come sfogo di odio, risentimento, gelosia”[13]. In altri termini, la proporzione tra reazione ed offesa deve prendersi come criterio dell’adeguatezza, cioè come parametro utile alla valutazione dello stato d’animo e delle intenzioni del reo, in quanto “una reazione smisurata non è casualmente dipendente dallo stato d’ira insorto a cagione del fatto ingiusto altrui, bensì tradisce malvagità d’animo, odio o risentimento, diversi da quello d’ira”[14], cosicché la lesione troverebbe nel fatto altrui non la causale, ma il mero pretesto.
§ 2. Il concorso del fatto colposo del danneggiato.
L’art. 1227 c.c., espressamente richiamato dall’art. 2056 c.c. in tema di illecito extracontrattuale, dispone che “se il fatto colposo del creditore (rectius: danneggiato) ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa”.
Secondo la richiamata formula normativa, quindi, nel determinare la diminuzione del risarcimento occorre tener conto dell’entità della colpa, la quale è data dal grado di inosservanza del modello di comportamento[15].
A tal proposito, la giurisprudenza civile[16] ritiene che l’art. 1227 c.c. non sia applicabile nell’ipotesi di provocazione da parte della persona offesa dal reato, in quanto la determinazione dell’autore del delitto va considerata causa autonoma di tale danno, non potendo ritenersi che la consecuzione del delitto alla provocazione esprima una connessione rispondente ad un principio di regolarità causale.
Negli stessi termini la stessa giurisprudenza penale, che ribadisce l’inapplicabilità dell’art. 1227 c.c. in ipotesi di provocazione del danneggiato, poiché “la provocazione, anche se induce una spinta emotiva, non si inserisce nel rapporto causale vero e proprio tra il fatto-reato che produce il danno ed il suo autore, il quale decide dolosamente la propria condotta”[17].
Ciò detto, può essere interessante vedere come la questione sia stata affrontata da un giudice modenese.
§ 3. Svolgimento del processo.
Tizio sorprende la propria fidanzata Caia tra le braccia di Sempronio e, a quella vista, si scaglia contro la donna percotendola.
Avendo subìto delle lesioni, Caia conviene in giudizio Tizio per sentirlo condannare al risarcimento del danno patito. Il convenuto, senza contestare l’aggressione, chiede comunque una riduzione della somma dovuta a titolo di risarcimento del danno, sul presupposto che il danno sia stato provocato da una provocazione, cioè dall’infedeltà di Caia.
Con sentenza in data 31/10/2000, il Giudice Aggregato Onorario del Tribunale di Modena, Dott.ssa Scapinelli, sul punto così decide:
“Parte convenuta nella sua ricostruzione del fatto in cui è causa non ha negato la derivazione, sotto il profilo causale, di lesioni a [Caia] della propria azione volontaria, sol limitandosi ad invocare una provocazione.
Al riguardo va osservato che la condotta ascrivibile a [Tizio] va riguardata come una violenta ed ingiustificata aggressione nei confronti di persona arbitra delle proprie azioni ed in specie di quelle relative alla propria sfera intima e sentimentale; sotto questo riguardo, infatti, [Caia] era libera di rivolgere le proprie effusioni amorose a chi di proprio gradimento senza che al riguardo il convenuto potesse pretendere di svolgere il proprio sindacato; e pertanto nessuna provocazione è stata posta in essere dall’attrice”.
§ 4. Breve nota a sentenza.
Poiché il giudice ha ritenuto tout court che l’infedeltà del partner non costituisca provocazione, la sentenza che si annota consente di rispondere solo parzialmente al quesito che ci eravamo inizialmente posti.
La pronuncia de qua, infatti, non ci permette di conoscere se il giudice – ove avesse ritenuto sussistente l’attenuante della provocazione – avrebbe proporzionalmente diminuito il risarcimento.
Le conclusioni raggiunte dal magistrato ci invitano comunque ad alcune riflessioni.
Per i più morigerati, infatti, il tradimento del partner potrebbe comportare la violazione di supposte “norme sociali, di costume, morali”, che – come visto – sono rilevanti in tema di provocazione. Ma, invero, il dovere reciproco di fedeltà[18] discende esclusivamente dal matrimonio (art. 143 c.c.), mentre non rileva il rapporto di fidanzamento[19].
A ciò si aggiunga che – anche in caso di coniugio – il senso morale comune (cui si ispira l’attenuante in parola) non approva che il partner tradito percuota (o addirittura uccida) la compagna venuta meno al dovere di fedeltà, poiché tale atto non reintegrerebbe l’ordine familiare turbato, ma costituirebbe l’espressione di un “malinteso senso dell’onore e di una esasperata valutazione della propria dignità”[20]. Si noti, infatti, che la giurisprudenza è unanime nel condannare i comportamenti dovuti a gelosia, poiché essa è uno stato passionale sfavorevolmen
te apprezzato dalla comune coscienza etica, essendo espressione di un sentimento egoistico tutt’altro che nobile ed elevato”[21].
In buona sostanza, pur non sottacendo alcune decisioni giurisprudenziali ben individuate geograficamente[22], la sentenza in esame merita di essere condivisa perché nel caso di specie pare che la supposta ingiustizia del fatto di Caia abbia costituito – più che causa – mera occasione del comportamento delittuoso di Tizio[23], spinto dalla gelosia e dall’odio (più che dall’ira).
Conseguentemente, da ciò discenderebbe addirittura l’applicazione dell’art. 61 c.p., il quale nel prevedere l’aggravante comune dei motivi abietti o futili, punisce l’azione delittuosa pretestuosa, cioè quella che si compie quando lo stimolo dell’azione sia così lieve da presentarsi più come “scusa”, “occasione”, “pretesto” che come causa determinante della condotta criminosa[24]. I piani, in sostanza, risultano invertiti: ciò che a prima vista potrebbe apparire attenuante comune, in realtà dissimulerebbe un caso di aggravante per motivi abbietti.
NOTE:
[1] Sull’istituto della provocazione, v. Fiandaca, Diritto Penale, pag. 324 e Mantovani, Diritto Penale, pagg. 244-245 e 412-413.
[2] Corte Assise Trapani 21 ottobre 1987. V., pure, Cass. Pen., Sez. I, 19 gennaio 1987.
[3] Cass. penale, Sez. I, 21 aprile 1994, nonché Cass penale, Sez. I, 16 novembre 1990. In senso conforme, Fiandaca, op. cit.
[4] Fiandaca, op. cit.
[5] Cass. Penale, Sez. VI, 24 aprile 1991.
[6] Cass. Pen., Sez. I, 7 maggio 1993.
[7] Cfr. Galimberti, Enciclopedia di Psicologia, voce: Ira/Collera, 1999, pag. 203.
[8] Corte Assise Trapani 21 ottobre 1987.
[9] Fiandaca, op. cit.; Mantovani, op. cit. V., pure, Cass. Pen., Sez. I, 10 giugno 1994.
[10] Cass. Pen., Sez. I, 12 marzo 1979.
[11] V., sul punto, Cass. Pen., sez. I, 4 maggio 1984, secondo cui a nulla rileva l’erroneo convincimento del reo sulla sussistenza del fatto ingiusto, poiché – anche con riferimento a norme sociali, morali e di costume – l’ingiustizia del fatto deve avere carattere oggettivo.
[12] Cass. Pen., Sez. I, 25 ottobre 1984.
[13] Cass. Penale, Sez. I, 28 febbraio 1985.
[14] Cass. Pen., Sez. i, 14 aprile 1992.
[15] Sul punto, v. Bianca, La responsabilità, Vol. V, p. 136 e ss.
[16] Cfr. Cass. n. 3447/1975; n. 2956/1988; n. 9209/1995.
[17] V., ad es., Cass. Pen., Sez. I, 19 aprile 1982. Deve segnalarsi, tuttavia, la già citata Cass. Pen., Sez. V, 29 gennaio 1988, che – sulla scia di Cass. Pen., Sez. V, 2 febbraio 1982 – ritiene che la provocazione (ove accertata) si configura come un fatto colposo idoneo a diminuire la misura del risarcimento del danno ex art. 1227 c.c.
[18] Cioè l’obbligo di non tradire la fiducia reciproca o il rapporto di dedizione fisica e spirituale tra i coniugi: V. Cass. 18 settembre 1997 n. 9287.
[19] Per inciso, si noti che non può ritenersi ingiusto la rottura di un fidanzamento poiché, oltre a rappresentare una normale eventualità, non è condannata dalla comune coscienza sociale, la quale vuole che sia assicurata la piena libertà di determinazione per i futuri sposi: Cass. Pen., sez. I, 3 aprile 1978.
[20] Cass. Pen., sez. I, 13 febbraio 1990.
[21] Cass. Pen., sez. I, 26 settembre 1977. V., più recentemente, Cass. Pen., Sez. V, 4 luglio 1991, la quale ha negato l’attenuante ad un uomo che aveva procurato lesioni volontarie all’amante della moglie. Contra, v. tuttavia, Cass. Pen., Sez. I, 12 marzo 1991, che, in tema di uxoricidio, ha riconosciuto l’attenuante della provocazione in un contesto di ripetute infedeltà della moglie con altri uomini. Contra, pure, Cass. Pen., sez. I, 4 dicembre 1992, secondo cui “in tema di provocazione, l’infedeltà coniugale costituisce fatto ingiusto per la morale della famiglia e per la civile convivenza”.
[22] La Corte d’Assise di Trapani con la decisione del 21 ottobre 1987 ha ritenuto sussistenti l’attenuante della provocazione nell’azione di un soggetto che ha prodotto lesioni personali gravissime – dalle quali sono derivate successivamente la morte – alla sorella minorenne che, rientrata a casa alle ore 20, aveva risposto vivacemente ai rimproveri che le erano stati mossi.
[23] Cass. Pen., Sez. I, 19 gennaio 1987.
[24] Cass. Pen., Sez. VI, n. 211383/1998.
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