Per stabilire e motivare, soprattutto in giudizio, la sussistenza di una certa probabilità (ad es. relativa all’esistenza o meno di un ipotetico nesso causale), i penalisti ricorrono ormai da tempo al concetto di “probabilità logica” (Cass. penale, sez. un., n. 30328/2002 – c.d. sentenza Franzese).
Da alcuni anni, tale espressione è stata mutuata e fatta propria anche dai civilisti, che a volte preferiscono tuttavia parlare di “probabilità razionale” (Cass. civile, n. 10285/2009), forse per provare a sfuggire così all’ossimoro della compresenza, in quell’unico concetto, della EVENTUALITA’ di ciò che è probabile, e della NECESSITA’ di ciò che è logico (la sentenza Franzese, infatti, erroneamente attribuisce natura “logica” all’incedere induttivo del ragionamento probatorio posto alla base di ciò che ivi si definisce appunto “probabilità logica”).
Tralasciando comunque l’accennata contraddizione in termini dell’espressione (giacché essa si baserebbe su presunte violazioni di mere convenzioni linguistiche, peraltro già messe in discussione anche da autorevoli logici e filosofi, come Carnap e Popper), in questa sede mi pare più interessante valutare la ratio dell’espressione in parola e, più precisamente, il motivo per cui la giurisprudenza ha sentito il bisogno di richiamarsi al concetto stesso di “probabilità logica”.
A tal fine, mi sembra opportuno partire proprio da ciò che i giuristi comunemente chiamano “prova logica” (cfr., ad es., Cass. n. 26171/2006) intendendo con ciò riferirsi alle presunzioni (art. 2729 c.c.), ossia a quel procedimento inferenziale di tipo induttivo o abduttivo (quindi non deduttivo e perciò, ad onta del nome, non logico) con cui è possibile risalire ad un fatto ignoto partendo da un fatto noto, grazie a criteri probabilistici, riassunti nel noto brocardo dell’id quod plaerumque accidit (“ciò che generalmente accade”).
V’è subito da dire, però, che tali inferenze probabilistiche, cui tanto spesso si ricorre nelle aule di giustizia, altrettanto spesso appaiono ingiustificate scientificamente, perché legate a ciò che è ritenuto verosimile dal Giudice o dalla Legge, secondo un criterio di normalità che tuttavia non è quasi mai verificato da un punto di vista propriamente statistico, che infatti richiederebbe quantomeno di conoscere (e applicare) la complessa formula matematica del cd. Teorema di Bayes, con la quale soltanto sarebbe possibile risolvere, correttamente da un punto di vista scientifico, casi come questo:
Un taxi cittadino ha provocato un incidente notturno con omissione di soccorso; in città ci sono due compagnie di taxi: i taxi verdi e quelli blu; un teste oculare ha identificato come blu il taxi coinvolto nell’incidente. Quale compagnia di taxi deve ritenersi responsabile del sinistro?
Ebbene, sapendo ad esempio che i taxi blu sono il 15% del totale, pur attribuendo alla dichiarazione testimoniale una elevata attendibilità (diciamo dell’80%), grazie alla citata equazione di Bayes è possibile concludere che la probabilità che quel taxi fosse veramente blu, come dichiarato dal teste, è di appena il 41%, quindi meno della metà, ossia una percentuale che non soddisfarebbe certo il criterio civilistico del “più probabile che non”, né quello penalistico della “colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio”, come appunto ritenuto necessario per le relative pronunce di condanna.
Come può già iniziare ad intuirsi, la rigida applicazione dei citati criteri statistici, per quanto formalizzati in rigorose formule scientifiche, può rischiare di condurre a risultati non solo controintuitivi, ma addirittura paradossali.
Per rendere più esplicita questa intuizione, basta rimanere nel citato esempio dei taxi, limitandoci però a mutare prospettiva: non più quella “assolutoria” (che ci ha appena consentito di escludere la responsabilità della società dei taxi blu perché statisticamente pari al 41%), ma “accusatoria”, che -per ragioni evidentemente simmetriche- dovrebbe farci ritenere statisticamente responsabile (59%) la società dei taxi verdi, in una sorta di automatismo fondato sull’oggettivo dato matematico del più elevato numero dei taxi in circolazione.
Più precisamente, secondo tale mutata prospettiva, la citata società dei taxi verdi dovrebbe allora ritenersi sempre (presuntivamente) responsabile in tutti i sinistri che coinvolgano taxi cittadini rimasti anonimi, per il solo fatto di far circolare in città un numero maggiore di taxi rispetto a quelli blu, e ciò dovrebbe valere -più in generale- per qualunque altra analoga fattispecie e per chiunque si trovasse nelle stesse condizioni numeriche della società di taxi verdi. Ma ciò è paradossale (è il c.d. paradosso di Cohen, detto Gate Crasher’s Paradox), giacché se tale criterio meramente numerico informasse tutti i giudizi indiziari, verrebbe di fatto stabilita una presunzione di colpevolezza sulla base di meri dati numerici che non hanno di per sè alcuna immediata rilevanza causale.
Da questo angolo visuale, appare quindi chiaro che la (pura e sola) statistica non può bastare al processo giuridico, ove automatismi del genere non possono essere ovviamente tollerati.
E’ allora opportuno distinguere il probabile dal provabile, cioè il ragionamento puramente probabilistico da quello in concreto impiegato dal Giudice, cui allora -secondo la giurisprudenza con cui abbiamo aperto questo paragrafo- “non è consentito dedurre dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica” alcuna automatica conseguenza giuridica, che egli perciò può di volta in volta ricavare in base al convincimento che si sia formato liberamente sulla scorta di una valutazione “ragionevole” del quadro probatorio, e quindi stabilendo autonomamente “l’elevato grado di credibilità razionale” della propria conclusione giuridica attraverso quella probabilità che si è deciso di chiamare “logica” (o, meglio ancora, “razionale”), proprio al fine di proclamarla distinta e indipendente da quella “statistica”, cioè meramente scientifica.
[Brano estratto da: Le tecniche argomentative dell’avvocato (conoscerle, applicarle, difendersene), pag. 137 e ss.]
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